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Argo simbolo di fedeltà

Nell’Odissea, Argo è il simbolo della fedeltà canina, voglia di servire. Rimango sempre affascinato nel rileggere i poemi omerici, come è noto, contengono molti modelli e motivi utilizzati nei millenni successivi da vari poeti e scrittori. Uno dei più celebri e commoventi passi dell’Odissea è quello che descrive l’ultimo, silenzioso incontro tra Ulisse ed Argo, il cane fedele che, trascorsi vent’anni, è ridotto ad un’ombra di sé stesso. Dopo che l’eroe, vestito con gli abiti laceri di un mendicante, approda ad Itaca, nessuno lo riconosce: né il leale porcaro Eumeo né il figlio Telemaco, ma solo Argo: “…e un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie, Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno lo nutrì di sua mano, prima che per Ilio sacra partisse; .. ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone, sul molto letame di muli e buoi…là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.” Argo nell’attesa paziente ma non rassegnata, coperto di zecche, trascurato e sopra un giaciglio di sterco, questo cane, simbolo di fedeltà accetta anche i maltrattamenti. In cambio dell’ultimo premio le sue sono le sofferenze mute inflitte da chi guarda e non vede. Lui è nato per servire, lo sa bene, e un servo non ha diritto a lacrime né a proteste, si lascia frustare in silenzio perché possiede quella dignità consapevole che gli vieta di svelare la maschera del martirio. Affronta la morte come ultimo oblio sapendo che in questa vita amore e giustizia sono chimere, ma nell’Olimpo, uno spicchio di cielo bleu, Zeus lo riserva anche ai cani. E allora, come sentì vicino Odisseo, mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non poté correre incontro al padrone. Sono solo poche decine di versi, ma di condensata ed universale poesia. Tanta è l’umanità trasferita nel povero animale, che essa strappa all’eroe una lacrima nascosta che ha il potere di farlo essere, per un attimo, l’umano Ulisse. Il protagonista è davanti al proprio misero e tristissimo cane che ha conservata intatta, in venti anni, quella scintilla d’amore, che egli gli ha infuso, da cucciolo, senza poterne godere allora. Il cane, quale amico privilegiato dell’uomo, rientra nei culti e nei miti di tutti i popoli. Anche in Sicilia vi era il culto indigeno del dio Adrano, probabilmente personificazione del vulcano Etna, il cui tempio era difeso da mille cani, specie di molossi che accoglievano benevolmente i visitatori del tempio, ma li sbranavano se essi erano ladri o si macchiavano di azioni nefande. Quella di vivere in simbiosi con i cani o alla maniera dei cani fu, nell’antica Grecia, una vera filosofia che sfociò nella scuola cinica, i cui maggiori rappresentanti furono Antistene, prima metà del IV secolo a.C., Diogene di Sinope, seconda metà del IV secolo, e Menippo di Gadara, III secolo a.C. I cinici vivevano allo stato di natura, abbandonando i beni e gli usi della vita civile Diogene ad esempio viveva in una botte e conduceva una vita randagia alla stregua dei cani, rifiutando le leggi delle comunità politiche. Si ridussero a vivere come cani, anche se il nome di cinici fu dato dal Cinosarge, cane agile, il luogo del Ginnasio d’Atene dove si riunivano. Caratteristiche di questa filosofia fu prevalentemente l’etica austera, fondata sull’indifferenza ai bisogni e sul rigore morale, nonché sull’autarchia e sulla pratica di vita virtuosa, con la compressione dei bisogni, limitati a quelli elementari. Il cane quindi, grazie alla sensibilità ed all’ispirazione di Omero diventa emblema di fedeltà, di affetto sincero, tale significato è destinato a perpetuarsi nelle espressioni artistiche successive. Nel Medioevo, ad esempio, un cane scolpito accanto alla tomba simboleggiava la fedeltà, anche oltre i limiti della vita terrena. Alcuni anni addietro, sono stato a Lucca e nel monumento sepolcrale di Ilaria del Carretto, opera di Jacopo della Quercia, custodita nel Duomo, sono rimasto colpito nell’animo, perché ai piedi della statua che raffigura la donna, morta in giovane età e sposa di Paolo Guinigi, è accucciato un cane, imperitura testimonianza di dedizione e di amore. Ritengo che molte volte noi essere umani che ci riteniamo evoluti dovremmo apprendere molto dai nostri amici animali. Favria, 20.12.2013 Giorgio Cortese
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