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13 Giugno 2017 - 13:17
Il recente pronunciamento della prima sezione penale della Corte di Cassazione sul diritto del boss mafioso Salvatore “Totò” Riina “ad una morte dignitosa” fuori dal carcere ha sollevato la profonda indignazione di una parte degli italiani. Certamente di tutti coloro che continuano a credere nella giustizia e che non hanno mai dimenticato di quali tremendi reati il detenuto in questione si è macchiato nel corso della sua vita. Che la pena inflitta da un tribunale rappresenti una forma di riparazione al danno causato alla società, alle donne e agli uomini e alle cose, talvolta, fa parte delle regole generali di uno “Stato di diritto”. E se certamente la pena non deve mai essere vessatoria e deve consentire, ove possibile, il recupero e il reintegro in società del detenuto stesso, è altresì vero che quando la condanna, come nel caso in esame, ammonta a ben 16 ergastoli, il carcere dovrebbe diventare definitivamente la casa del detenuto, fino alla sua morte naturale e non certo per vendetta, ma per amore di giustizia. In carcere il detenuto ha diritto a tutte le cure mediche necessarie e non vi è nessun motivo per il quale dovrebbe poter scontare un solo minuto al di fuori di quel contesto. La privazione della libertà personale e l’allontanamento dall’affetto dei suoi famigliari, insieme al dolore che tutto ciò certamente comporta, fanno parte della condanna e servono a far ricordare al detenuto tutto il male che ha fatto ad altre persone nel corso della sua esistenza. Il parere della Corte di Cassazione arriva del resto nel venticinquesimo anniversario della strage di Capaci in cui persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta (Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo) e della strage di via d’Amelio in cui perse la vita il magistrato Paolo Borsellino insieme ai cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La morte di Falcone e Borsellino, recentemente rievocata anche a Lanzo Torinese su iniziativa dell’assessorato alla Cultura, ha rappresentato il momento del risveglio della coscienza civile dell’Italia intera e un punto fermo nella lotta alla mafia da parte dello Stato, ma anche di tanti cittadini onesti. Ecco perché a 25 anni da quelle stragi, di cui Totò Riina fu il mandante, fa ancora più male il pronunciamento, non vincolante, della Corte di Cassazione che pur non mettendo in discussione la detenzione del boss dei boss ha lanciato un messaggio equivoco e sgradevole all’Italia intera. Il 12 dicembre 2000, a Corleone, patria di tante famiglie mafiose e dello stesso Totò Riina, è stato inaugurato il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia (Cidma) alla presenza delle massime autorità dello Stato, tra cui il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il Vice-Segretario Generale delle Nazioni Unite professor Pino Arlacchi, in rappresentanza del Segretario Generale Kofi Annan. Questo museo, inizialmente osteggiato dalla popolazione locale, supera oggi i 10 mila visitatori all’anno e rappresenta una spina nel fianco per la criminalità organizzata e un punto d’orgoglio per la società civile che crede nella giustizia e nella legge. Il museo è gestito da un gruppo di giovani volontari di Corleone e dei paesi limitrofi. Il 12 maggio scorso, su invito dell’assessore alla Cultura di Lanzo Fabrizio Casassa, due di questi volontari hanno raccontato la loro esperienza nel salone Atl, testimoniando il coraggio e la forza di volontà di tanti altri loro coetanei, figli di una generazione che vuole dire basta alla mafia e guardare al futuro con ottimismo e fiducia. Giovani che non sono più disposti a rinunciare alla loro libertà di parola e di azione, che hanno fiducia nello Stato e nelle istituzioni e che non accettano di abbassare gli occhi per paura come hanno fatto i loro padri e le loro madri. La fiducia di questi giovani non deve essere tradita perché solo così la lotta contro la mafia potrà essere portata a termine con successo. Per questo, ai giudici della Corte di Cassazione vogliamo ricordare la grande responsabilità che si sono assunti di fronte a tutti gli italiani con il loro pronunciamento e lo vogliamo fare ricordando una celebre frase tratta da un’intervista televisiva a Giovanni Falcone che più di ogni altra parola inchioda noi tutti, ciascuno nel proprio ruolo, al dovere di cittadini e rappresentanti delle Istituzioni: “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. http://www.cidmacorleone.itEdicola digitale
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